Timbuktu
A Vicenza il film capolavoro di Abderrahmane Sissako
A poca distanza da Timbuktu, dove domina la polizia islamica impegnata in
una jihad in cui divieto si aggiunge a divieto, una famiglia vive
tranquilla sulle dune del deserto. Sotto un’ampia tenda Kidane, Satima e
la loro figlia Toya possono solo cogliere dei segnali di quanto accade
in città. Il giorno in cui il loro pastore dodicenne si lascia sfuggire
la mucca preferita che distrugge le reti di un pescatore nel fiume che
scorre tra la sabbia, tutto però muta tragicamente. L’animale viene
ucciso e Kidane non accetta il sopruso.
La fonte di ispirazione di questo intenso quanto rigoroso film di uno
dei maestri del cinema africano è rintracciabile in un fatto di cronaca
accaduto in una cittadina del nord del Mali. Una coppia è stata lapidata
perché portatrice di una colpa inaccettabile agli occhi accecati degli
integralisti islamici: i due non erano sposati. Sissako però non vuole
essere il narratore di un fatto di cronaca accaduto in un Paese che non
fa notizia e non origina mobilitazioni internazionali. Vuole
raggiungere, riuscendoci, un obiettivo molto più elevato. Lo testimonia
la stessa struttura del suo film che si sviluppa sul piano di una
continua alternanza per almeno tre quarti della narrazione. Da un lato
uomini che cercano a fatica nella lingua araba la loro radice mentre
impongono norme che condizionano anche la più quotidiana delle attività
avendo spesso di mira le donne, e dall’altra la vita di una famiglia che
conosce l’armonia e la fedeltà (quella vera e profonda) nelle relazioni
parentali e con la divinità. Sissako ci fa percepire la distanza
abissale tra questi mondi grazie anche a una fotografia di straordinaria
bellezza e intensità che non si perde mai nell’estetismo
autoreferenziale. Non è un film anti-islamico il suo (il discorso che
l’imam locale fa al neofita jihadista ne costituisce la prova più
evidente). È piuttosto un grido di allarme lanciato a un Occidente
spesso distratto (salvo quando si presentino episodi mediaticamente
rilevanti come il sequestro di giovani studentesse) e talaltra incline a
pensare che in fondo l’integralismo sia una rivolta contro i secoli di
colonialismo e che nasca dall’interno delle varie realtà nazionali.
Nulla di tutto ciò risponde a verità, ci dice il regista: siamo di fronte
a un’oppressione che arriva da fuori e prende a pretesto una supposta
fede per sottomettere intere popolazioni. Non resta allora alle nuove
generazioni che fuggire come gazzelle dinanzi a belve assetate di sangue
infedele oppure, come ci viene proposto in una sequenza al contempo di
grande forza ed eleganza, di continuare a giocare una partita proibita.
Anche se non c’è il pallone.
(Giancarlo Zappoli)