La storia della concubina del levita, nella Giornata contro la tratta
Quelli in cui ho vissuto la mia
breve esistenza, erano tempi molto difficili: un periodo buio della storia di
Israele, che non aveva un re e mancava di qualsiasi forma di autorità legale e
morale.
Ero la concubina di un levita, un
uomo religioso che viveva nella regione montuosa di Efraim. Mentre le mogli con
diritti e privilegi erano quelle per cui era stato pagato un prezzo, ma per le
quali il padre aveva dato in cambio una dote, le concubine erano legalmente
sposate, ma per loro non c’era stata dote.
Ero stata comprata e sradicata
dalla mia terra, Betlemme.
Nella casa del levita, le mie
giornate non erano diverse da quelle di un dipendente o di un servo… Avevo
tradito mio marito e per questo – unica azione autonoma della mia vita – ero
tornata nella mia casa, per quattro mesi.
Credo che mio marito non accettasse
di aver perso una sua proprietà, e venne a riprendermi.
“Per parlare al mio cuore” disse;
in realtà l’unico con cui parlò fu mio padre.
Per giorni interi, in una specie
di ‘gioco di forza’ mascherato da ospitalità, quasi a verificare, tra i due
uomini, chi potesse imporre le proprie decisioni, mentre io me ne stavo in
silenzio, invisibile.
E venne il tempo di tornare.
Partimmo tardi e a sera eravamo ancora in viaggio.
Mio marito non voleva fermarsi in
una città straniera, così ci dirigemmo a Ghibea che appartiene a Beniamino.
Nessuno fu però disposto ad accoglierci per la notte; solo un vecchio
straniero, che tornava dal lavoro dei campi, ci aprì la porta della sua casa
perché non passassimo la notte sulla piazza.
Credevamo di essere al sicuro, ma
gli uomini della città, gente perversa, vennero a ordinare al vecchio di far
uscire la persona che ospitava, per abusare di lui.
Come se fossi in un incubo,
ascoltai il vecchio cercare di farli desistere offrendo in cambio me e la
figlia vergine purché lasciassero in pace il levita. Non volevano cedere, ma – in
un crescendo di orrore – sentii mio marito prendermi, condurmi fuori e
consegnarmi a quegli uomini per aver salva la vita.
Chissà a quante altre donne
capiterà nei prossimi giorni, anni, secoli di essere strappate dalle loro case
o costrette a lasciarle… di essere viste solo come ‘pezzi’ di carne da mettere
in vendita, da usare come ‘merce’ per arricchirsi, salvarsi o affermare la
propria forza e il proprio potere…
Ore e ore in balia di quegli
uomini senza più essere in grado di distinguere volti, di sperare in un barlume
di luce che rischiarasse quella notte interminabile.
Il dolore… grande, immenso, che
arrivava a ondate come in un mare in tempesta; onde che salgono fino a togliere
ogni forza, fino a togliere il respiro…
Troveranno il mio corpo
abbandonato, gettato via, e le mie mani
sulla soglia.
Un ultimo tentativo di chiedere
aiuto? E a chi, se ero stata deliberatamente ceduta per aver salva la vita?
Con le mie mani ho voluto segnare
una soglia, un limite tra l’essere bestie e la possibilità di diventare umani.
Rivendico questo mio ultimo gesto: poso le mani come segno di quella soglia.
Se ri-cordare vuol dire rimettere
nel cuore per ritrovare sensi e significati, le mie mani devono essere trovate
lì, a futura memoria, segno e richiesta di giustizia per tutte le donne abusate,
uccise, fatte a pezzi.
(illustrazione di Silvia Gastaldi)