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“Teologhe e teologie”, il racconto dei femminismi nella storia

Una nuova interessante collana curata dal CTI

Alla
mole di studi e ricerche già disponibili messi in campo dalle donne,
quest’anno, la collana «Teologhe e teologie», curata dal Coordinamento
teologhe italiane su proposta della casa editrice Nerbini di Firenze per
attraversare temi, momenti e figure della presenza femminile di ieri e
di oggi nelle Chiese cristiane, della riflessione spirituale da cui
questa presenza è scaturita e della teologia innestata di pratiche a cui
dà origine. Una collana – spiega la presidente del CTI Cristina
Simonelli – che vuole recuperare la genealogia in cui è radicato
l’attuale lavoro delle teologhe, con «l’istanza etica del superamento
dell’esclusione e l’anelito spirituale di un umanesimo degno di questo
nome, che si dipani attraverso le differenze e si proietti oltre ogni
confinamento»

 
Riportiamo di seguito l’articolo di presentazione scritto da Rita Torti (il Regno delle donne).
 
Ci sono storie mai raccontate, altre dimenticate, altre ancora
raccontate solo parzialmente oppure addomesticate, adattate a una
narrazione complessiva che non ne poteva o voleva sostenere le
trasgressioni, le novità, i possibili sviluppi. Farle emergere
dall’ombra, liberarle da strati di polvere, ritrovarne il colore
originario sotto restauri impropri significa intraprendere non solo
un’avventura appassionante, ma anche un percorso di verità e di
umanizzazione, perché dell’umano si ritrovano la pluralità, le risorse
sconosciute, le voci e le vite marginalizzate ma non ininfluenti.
La vicenda delle donne è da questo punto di vista un esempio
macroscopico e paradigmatico, che da decenni ha dato origine a ricerche
rilevanti e innovative. Alla mole di studi già disponibili si è
aggiunta, quest’anno, la collana «Teologhe e teologie», curata dal
Coordinamento teologhe italiane su proposta della casa editrice Nerbini
di Firenze per attraversare temi, momenti e figure della presenza
femminile di ieri e di oggi nelle Chiese cristiane, della riflessione
spirituale da cui questa presenza è scaturita e della teologia innestata
di pratiche a cui dà origine.
Una collana – spiega la presidente del CTI Cristina Simonelli – che
vuole recuperare la genealogia in cui è radicato l’attuale lavoro delle
teologhe, con «l’istanza etica del superamento dell’esclusione e
l’anelito spirituale di un umanesimo degno di questo nome, che si dipani
attraverso le differenze e si proietti oltre ogni confinamento».
Una collana, ancora, che, a partire dalla consapevolezza femminista –
termine che disturba ancora molto, ma che proprio per questo è bene
pronunciare –, intende dare il proprio contributo alla «pratica di una
teologia speranzosa e sapienziale, di una spiritualità ecumenica e
laica, radicata nelle appartenenze e capace di oltrepassarle,
appassionata alla convivenza civile e rigorosa nella ricerca del bene
comune».
Con il primo volume della nuova iniziativa editoriale – tre, finora,
quelli pubblicati – ci si ritrova proprio in questo complesso di intenti
e prospettive grazie all’appassionata e lucida prosa di Lucy Bartlett.
Attivista inglese nata nel 1876, alla soglia dei trent’anni si trasferì
in Italia, e qui, tempo dopo, pubblicò la traduzione del suo saggio Sex and Sanctity, precedentemente uscito a Londra, dandogli un nuovo titolo: Il femminismo nella luce dello spirito. Era il 1918.
Ripubblicato a 100 anni esatti di distanza, lo scritto presenta
tratti di sorprendente attualità collocati in un orizzonte ideale che
affascina ma al contempo ormai ci sfugge. Molto opportuna risulta quindi
la scelta di accompagnare il testo di Bartlett con un saggio
introduttivo affidato a Liviana Gazzetta, che, disegnando il contesto
culturale e la fitta rete di relazioni dell’autrice, permette di
coglierne la rilevanza e le peculiarità.
 
FEMMINISMO SPIRITUALE
Entriamo così nel variegato mondo dello spiritualismo e
dell’idealismo romantico, elemento costitutivo dei movimenti femminili
sorti attorno a metà Ottocento, quando l’ansia di rinnovamento
spirituale e di progresso dell’umanità si intrecciò, nella vita delle
donne, con le esigenze d’emancipazione da ruoli e destini percepiti
sempre più come angusti e limitanti. Il protagonismo femminile nel
risveglio spirituale ottocentesco toccò anche le religioni organizzate,
anche se con caratteri ed esiti peculiari e divergenti tra Chiese della
riforma e Chiesa cattolica, che daranno poi luogo a una differente
collocazione rispetto ai movimenti femministi laici.

L’opera di Lucy Bartlett, a fine secolo, richiama il neo-romanticismo
antipositivista e gli orientamenti dei circoli antroposofici, con
l’idea di un nuovo ordine sociale in cui il pieno sviluppo spirituale
dell’umanità avrebbe unito in un saldo vincolo d’amore le classi, le
nazioni e le singole anime, e in cui le donne, come madri e come
cittadine, dovevano avere un ruolo di primo piano. Da qui l’intenso
impegno sociale, che Bartlett condivide con moltissime altre e che per
lei assume il tratto specifico dell’assistenza ai minori in condizioni
di difficoltà, in particolare quelli «criminali» – un ambito in cui
ricoprirà anche importanti incarichi pubblici a livello nazionale –.
Da qui, anche, la concezione del femminismo come manifestazione del grande Sturm und Drang che attraversa la società del suo tempo, essenziale per liberare il
rapporto tra uomini e donne da mentalità, aspettative e consuetudini
contrarie a quello che dovrebbe essere il suo vero scopo, soprattutto
nel matrimonio: una vera, reciproca e paritaria unione spirituale in cui
ciascun sesso porti e realizzi in pienezza, integrandole, tutte le
dimensioni umane, compresa quella sessuale.
Sul piano pratico, tuttavia, la percezione che molti hanno del
femminismo è ben diversa. Per questo, dopo una riflessione
sull’importanza e la possibilità di superare, componendola in una
sintesi superiore, la distanza fra il modo di pensare «cattolico» e
quello «protestante», Bartlett pazientemente riprende una a una le
critiche e le paure più diffuse nei confronti delle «nuove donne»; le
decostruisce, le confuta, le ribalta.
La donna che non vuole più essere sottomessa, che lotta strenuamente e
quando occorre aspramente per il suffragio, è una donna spiritualmente
più elevata rispetto al passato: più generosa, perché combatte non solo
per sé ma per tutte, soprattutto per quelle che non sono in condizione
di farlo; più consapevole, perché la sua anima ambisce alla libertà; più
adeguata a ciò che l’unione matrimoniale, se non vuole essere
sacrilega, comporta, e cioè la capacità di porsi come vera compagna del
marito; la donna nuova è quindi profondamente etica e consapevolmente
responsabile, per quanto riguarda se stessa e anche per l’uomo, di cui
non è disposta ad accettare l’immoralità sessuale e la convinzione di
un’ingiustificabile superiorità.
Il grande atto di misericordia che oggi la donna può fare all’uomo,
scrive Bartlett, è la fermezza nell’esigere un rapporto paritario e di
piena comunione.
Il fatto che molte giovani preferiscano rinunciare al matrimonio pur
di poter «respirare liberamente», scrive, non è un rifiuto della
vocazione femminile di sposa e di madre, non è una guerra all’uomo né la
fine dell’amore. È, invece, guerra a un rapporto sbagliato tra i sessi e
spinta a un amore più grande, più umano, in cui anche la generazione
fisica finirà per assumere quel tratto di libertà, consapevolezza e
collaborazione tra i sessi che è mancato nell’esperienza procreativa
delle epoche precedenti.

PARTECIPARE ALLA COSTRUZIONE DELLA CITTÀ
Di scelte, di libertà, di aspirazioni «più grandi», in tutt’altro
contesto e tre secoli prima, si parla anche nel secondo volume della
collana, Storie di libertà. Donne e fede nella Francia del Seicento, di cui è autrice Maria Pia Ghielmi, docente di Teologia spirituale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale.
Siamo nell’epoca in cui le norme e gli obiettivi teologici e
pastorali della Chiesa uscita dal concilio di Trento hanno sulla vita
delle donne, sia laiche sia religiose, un forte impatto dai tratti
chiaroscurali.
L’irrigidirsi del disciplinamento e delle forme di controllo da parte
dell’istituzione ecclesiastica convive infatti con la necessità, per
favorire la diffusione e il consolidamento della riforma cattolica, di
lasciare spazi d’azione a quel ruolo attivo che le donne avevano avuto
nei secoli precedenti e che avevano ben poca intenzione d’abbandonare.
S’innalzano muri attorno ai monasteri e si definiscono recinti anche
per quelle che ne sono fuori, ma al contempo si legittimano nuove forme
di vita apostolica, sebbene nel constante quadro di un’antropologia
asimmetrica e androcentrica.
In questa trama complessa, già da tempo oggetto di studi
approfonditi, si inserisce l’ordito rappresentato dalla vita di Marie de
l’Incarnation, Madeleine de la Peltrie, Jeanne Mance e Gabrielle
Suchon, che Ghielmi presenta come personalità eccezionali ma al contempo
emblematiche di un’epoca in cui le donne «riuscirono a trovare spazi
d’azione e di presenza significativa usando gli strumenti a loro
disposizione (…) talvolta salvando con abilità le apparenze senza
giungere a uno scontro diretto, talvolta subendo provvedimenti
restrittivi e sanzioni».
Il recinto da cui Marie Guyart – poi Marie dell’Incarnation – e
Madeleine de la Peltrie fuggivano era il matrimonio, a cui entrambe
erano state costrette dalla famiglia (un’esperienza devastante di croce e
prigionia, dirà Marie, che ne rimarrà indelebilmente segnata);
precocemente vedove, scelsero ciascuna la via per la quale si sentivano
chiamate da Dio: per Marie l’ingresso nelle Orsoline di Tours, per
Madeleine, dopo un ritiro strategico in convento e il successivo
stratagemma di un finto matrimonio al fine di evitare nuovi pretendenti,
il viaggio verso il Canada, dove si stavano insediando coloni e
missionari francesi.
Qui Madeleine incontrerà Marie, nel frattempo condotta da intense
esperienze mistiche a capire che il suo posto era là, nelle vaste aree
del mondo ancora prive dell’annuncio del Vangelo. Lottò moltissimo,
Marie, per ottenere il permesso di partire; una volta arrivata,
nonostante le molte difficoltà, non se ne andò più; era sempre in
convento, ma i «selvaggi» divennero la sua famiglia.
Madeleine, che da «esterna» sosteneva la missione in cui si trovava
Marie, decise a un certo punto di partecipare alla costruzione di
Montréal, una città ideale in cui francesi e nativi convertiti avrebbero
dovuto vivere insieme secondo lo spirito del Vangelo. Una delle
fondatrici di Montréal era un’altra giovane donna di cui Ghielmi segue
le vicende: Jeanne Mance.
Lasciata libera dal padre di rifiutare sia il matrimonio sia il
convento, poco interessata anche alle nuove forme di vita attiva, seppe
del progetto della società costituita per finanziare il progetto della
nuova città (Société de Notre-Dame de Montréal) e, confortata da
illuminati consiglieri spirituali, capì che quella era la sua strada e
partì. Avrebbe dovuto svolgere ruoli «femminili», ma divenne invece un
elemento portante dell’organizzazione, dell’amministrazione e del
governo dell’isola, e viaggiò più volte fra il Canada e la Francia per
seguire le vicissitudini della Societé.

NÉ MOGLIE, NÉ VEDOVA, NÉ RELIGIOSA
Né moglie, né vedova, né religiosa: Jeanne Mance sceglie, con
convinzione e per fede, quella che Gabrielle Suchon – la quarta figura
tratteggiata da Ghielmi – chiama la vita delle neutralistes. Di
questa donna, che lottò con successo per liberarsi dai vincoli di una
monacazione forzata, ci sono rimasti due scritti voluminosi, di cui uno
intitolato, appunto, Du célibat volontarie ou la vie sans engagement,
che illustra la legittimità e i vantaggi spirituali di una condizione
libera da obblighi di dipendenza al marito o alla regola religiosa.
Quanto fossero pesanti queste dipendenze, e quanto fossero ingiuste, è l’argomento del Traité de la morale et de la politique,
in cui Suchon discute con intelligenza, usando le stesse armi dei
trattatisti, le tre grandi privazioni a cui gli uomini condannano le
donne per il solo motivo del loro sesso: la privazione della libertà,
quella della conoscenza e quella del potere.
Bibbia, donne, profezia. A partire dalla Riforma è il titolo
del terzo volume di «Teologhe e teologie». Curato da Letizia Tomassone e
Adriana Valerio, il libro nasce da un seminario di studi organizzato
nel 2017 dal Coordinamento teologhe italiane in collaborazione con la
Facoltà valdese di teologia di Roma e il sostegno della Tavola valdese
per celebrare i 500 anni della Riforma.
In un XVI secolo attraversato dalle istanze dell’umanesimo e della devotio moderna, tra attenzione all’analisi filologica dei testi ed esigenza di renderli fruibili a tutti – anche alle «muliercules» – traducendoli nelle lingue volgari, e con una tradizione di donne che
già nei secoli precedenti avevano letto, studiato e predicato la
Scrittura, come Adriana Valerio ricorda nella Premessa, la gerarchia
cattolica reagisce alla riforma protestante limitando l’accesso alla
Bibbia nella sua integralità e la diffusione delle traduzioni.
La situazione era radicalmente diversa, come noto, nelle Chiese e
comunità riformate, in cui il contatto diretto con il testo sacro era
affidato a ogni credente, donne comprese. I saggi raccolti nel volume
esplorano in direzione sincronica e diacronica le molteplici forme in
cui le credenti interpretarono e concretizzarono il sacerdozio
universale e il principio della sola Scriptura, in un percorso
che va dall’Europa del Cinquecento all’America del XIX secolo, quando la
Bibbia fu fonte d’ispirazione e sostegno per le richieste di
uguaglianza fra bianchi e neri e fra donne e uomini.

DONNE DELLE RIFORME
Passando per le visioni e profezie di Anna Tapnel nell’Inghilterra
seicentesca, l’esegesi pietista, le quacchere del XVII secolo, le Biblewomen valdesi nell’Italia di fine Ottocento, e concludendo con la riflessione e la pratica delle battiste italiane.
Il quadro che ne emerge è complesso e irriducibile a semplificazioni;
come sottolinea nella Postfazione Letizia Tomassone, il seminario di
studio e il libro smontano due idee pregiudiziali sulla Riforma
protestante: quella secondo cui essa avrebbe di fatto sottratto spazi
alle donne, restringendoli alla casa; e quella, opposta, che le
attribuisce in via esclusiva il merito di un protagonismo femminile di
cui l’accesso al pastorato sarebbe segno evidente ed eloquente.
Visioni in banco e nero, non aderenti a una realtà che ha visto sia
nel mondo protestante sia in quello cattolico chiusure e limiti imposti
al sesso femminile; differenti, certo, come differenti erano i varchi
attraverso i quali la soggettività delle credenti poté farsi strada ed
esprimersi in spazi teoricamente non consentiti. Comune, invece, il
desiderio delle donne di contribuire attivamente alla riforma delle
Chiese, traendo forza e legittimazione dalla Scrittura nonostante i
«divieti paolini» a cui nemmeno i riformatori furono insensibili.
Letti a partire dal nostro presente, questi primi volumi della
collana Nerbini inducono ad abbandonare visioni binarie ancora molto
diffuse, come quelle riguardanti il rapporto fra religione e dignità
delle donne: per alcuni un’equazione impossibile, per altri un felice
connubio sempre attestato nella storia della Chiesa, con l’eccezione di
singoli episodi di misoginia; né l’una né l’altra posizione, lo si è
visto, colgono la realtà.
L’intraprendenza coraggiosa di tante donne per rispondere alla
chiamata non convenzionale di Dio, inoltre, infrange l’idea persistente
della passività e della dimenticanza di sé come caratteristica e
virtuoso dovere femminile. Ancora, la loro lotta secolare per la
giustizia di genere a partire dalla propria esperienza di fede può
utilmente instillare qualche dubbio a chi ancora parla di femminismo, e
nello specifico di femminismo cristiano, come di un cedimento alla
degenerazione antireligiosa dei tempi moderni.
Infine, una Chiesa che intenda ricomprendersi come comunità
missionaria tutta ministeriale potrebbe sentirsi profondamente
interrogata dall’evidenza di innumerevoli forme non solo di servizio ai
sofferenti, ma anche di studio e annuncio della Parola, insegnamento e
predicazione che nei secoli le donne hanno assunto in prima persona. E
dalle resistenze che hanno sempre dovuto affrontare.
Tanti temi per i prossimi volumi della collana, dunque.