Quando la morte toglie la vita sulla soglia della speranza
“Ero un sogno… Lo sono ancora…
Trent’anni fa sono stato generato nel cuore di Kefilwe, che col tempo è diventata una splendida ragazza: un capo pieno di treccine, così fitto da non lasciar scappare nessun pensiero, nessuna idea, nessun ricordo; molto alta, pelle scura, occhi profondi, piena di vita.
Sono cresciuto con lei, con la speranza di poter diventare realtà, di renderla felice. Ma ero solo un sogno. Il suo.
Quando ha deciso di scappare dalla sua terra piangeva: ha lasciato tutto. Mamma e papà, il fratello Mahud di poco più giovane, la nonna e molti amici… ha portato via solo me. Non sono bastato a salvarla.
Quella mattina, quel maledetto 3 ottobre 2013, era ancora buio quando all’improvviso il cielo si è incendiato, e tutto, ancora prima di iniziare, è finito.
Ero un sogno… Lo sono ancora…
Venti metri di spazio per i sogni di oltre quattrocento sorelle e fratelli, alcuni di loro così piccoli da non aver mai visto la luce e non essere mai stati scaldati dal tepore del sole… Dopo aver attraversato per due giorni un mare di paura e aver sfiorato il sorriso di Kefilwe, mi sono adagiato sul fondale, a 45 metri di profondità. Sono stato lì per diversi giorni, e quando mi hanno raccolto, mi sono ritrovato nello stesso posto in cui ero nato, ma lei non c’era più. Io non c’ero più. Non potevo esserci più.
Nessuno mi avrebbe mai conosciuto; nessuno mi avrebbe mai visto realizzato, nessuno avrebbe più potuto sposare Kefilwe, e generare futuro. Faceva freddo laggiù. Ero solo. Un minuto. È stato tutto così veloce che non mi sono neppure reso conto che il contatto tanto cercato con la realtà non ci sarebbe mai più potuto essere.
Ero un sogno… Lo sono ancora…
Da quando non sento più il ritmo del cuore di Kefilwe, i suoi passi, la sua voce, sono diventato triste. Resterò per sempre intrappolato nel suo giovane corpo slanciato, annegato abbracciato impaurito, perduto. Per sempre. I suoi genitori, Mahud forse non sapranno mai che non ce l’ha fatta a toccare nuovamente terra dopo aver lasciato l’Africa; di lei forse non avranno mai più notizie; di me non si preoccuperanno più. Sono morto con lei.
Sto stretto a Piano Gatta, dove mi hanno messo da quel giorno; ho un nome, anzi, un numero, da quel giorno. Chi mi ha strappato alla salsedine impetuosa delle onde mi ha destinato a quel cimitero, mi ha segnato: 63. Ma io non volevo chiamarmi così.
Ero un sogno… E lo resterò per sempre…”
(storia ispirata dalla foto della mostra Corpi Migranti di Max Hirzel, visitabile a Vicenza presso la libreria Galla dal 2 al 16 ottobre 2019)
Lara Iannascoli
volontaria Servizio civile universale