Un’intervista a Michela Murgia
*articolo di Valeria Palumbo, dal blog”La 27a ora” (fonte qui)
Non le è ancor chiaro che cosa porterà fuori da questa esperienza e ammette che, per lei, che già lavorava da casa, senza familiari scomodi accanto e con molto spazio a disposizione, nel quotidiano non sono cambiate molte cose («Ho sempre praticato la distanza sociale», scherza). Ma la scrittrice Michela Murgia ha invece idee precise su che cosa significa essere femministe – e femministi – in questo momento storico e a che cosa le donne dovranno stare attente dopo che sarà finita l’emergenza. Lo spunto per parlarne è la diretta streaming su Instagram, il 29 marzo 2020, in cui affronta il tema di essere Morgane nel 2020, il femminismo dalla fine del mondo. È uno degli appuntamenti quotidiani di Triennale Decameron, il format inaugurato da Triennale Milano da quando il centro culturale, museo e teatro è chiuso. L’invito è ad artisti, designer, architetti, intellettuali, musicisti, cantanti, scrittori, registi, giornalisti a sviluppare un racconto sull’attuale periodo di crisi. Questa volta è la scrittrice Michela Murgia (Ave Mary, Accabadora, Istruzioni per diventare fascisti, tra le sue opere) a raccontare che cosa significa essere una “Morgana” nel 2020. Con lei, dialoga il filosofo Leonardo Caffo.
«Siamo partiti da un elemento molto personale: il 12 marzo, mentre l’Italia chiudeva, Leonardo è diventato padre di una bambina e l’ha chiamata Morgana, come la strega. Noi crediamo che il futuro sia nella divergenza: che appartenga a chi porta una diversità importante. In questi giorni tutti dicono: “Non vedo l’ora di tornare alla normalità”. Ma non succederà. Non che non torneremo al lavoro, a fare shopping, a teatro. Ma saremo dei sopravvissuti. Questa esperienza ci ha cambiati per sempre. Abbiamo scoperto che possiamo fare a meno, e anche a lungo, di ciò che contava molto per noi».
Con il femminismo che cosa c’entra?
«Innanzi tutto si è creduto a lungo che fosse un reperto del passato, lo si accompagnava all’aggettivo “vetero”. Ma il femminismo degli Anni Settanta è quello che ha permesso la formazione della galassia dei femminismi attuali. Non solo, ma che ci ha insegnato a guardare il mondo da una molteplicità di punti di vista e a esplorarne la sua diversità. Ed è proprio questo che ci servirà. A me interessa in particolare il femminismo intersezionale, cioè quello che non si occupa soltanto di donne, ma esplora tutti i temi della contemporaneità. In particolare, ciò che viene considerato marginale. Questo è stato il grande apporto del femminismo: aprire lo sguardo e l’analisi a contesti che erano stati ignorati».
C’è però un femminismo che teme quest’allargamento, lo giudica una pericolosa deviazione dalle priorità delle donne…
«È un femminismo conservatore che condanna il maschile e non il maschilismo. Invece è il maschilismo a essere un problema, anche per gli uomini. Certo la società patriarcale paga loro dividendi maggiori, ma è un posto scomodo, una gabbia per tutti».
E allora, che cosa sta insegnando alle donne l’emergenza Covid-19?
«L’ha detto la virologa Ilaria Capua: questo virus uccide più gli uomini. Quando ci sarà la ripresa le prime a tornare al lavoro saranno forse, per questo, le donne. È una possibilità: prima dovevamo parlare di quote rosa».
Non c’è il rischio che accada come durante le due Guerre mondiali: finché gli uomini erano al fronte, le donne furono chiamate a fare tutto. Poi furono rispedite senza diritti e senza tanti complimenti a casa.
«Credo che abbiamo imparato la lezione. Però avete notato: adesso, ai tavoli dell’emergenza ci sono solo uomini. Le donne sono nei laboratori, in corsia, dovunque si combatte il virus, ma sugli schermi, nelle conferenze stampa, sono tutti maschi. È loro la narrazione. Come se nei momenti di fragilità abbiamo bisogno di rassicuranti “papà”. Pensiamo alla schiera di “sindaci sceriffi” che ci trattano in modo paternalistico. Ci stanno trattando da minorenni, che qualcuno deve rimproverare perché da soli non sanno come comportarsi».
Non sarà allora il caso di sostituire gli uomini al tavolo?
«Non è questo il punto. Le donne sono ora in prima fila. Ci sono. Certo c’è il problema del racconto ma oggi abbiamo il potere di gestirlo. Lo abbiamo tutti: siamo diventati tutti enti comunicativi. Certo le donne hanno ancora difficoltà a proporsi: io faccio fatica a trovare le esperte per le trasmissioni. C’è un problema di costruzione della leadership. E di certo, adesso, dobbiamo aspettare che l’emergenza finisca, perché ora dominano la paura e la fragilità. La gente chiede addirittura l’esercito nelle strade come se da soli non fossimo capaci di comportarci bene. Ma dopo quello che dovremmo proporre non è una leadership femminile muscolare. Ma un nuovo sistema di relazioni orizzontali».
Sul Financial Times è apparso un articolo che sosteneva che i nuovi eroi non sono più i soldati ma il personale sanitario. Questo apre le porte non soltanto a una concezione meno bellica della storia, ma anche a protagoniste, anzi a eroine donne.
«Ma non è di questo che abbiamo bisogno. Questa è la mentalità delle Storie della buona notte per bambine ribelli. Semplicemente sostituisce agli eroi, le eroine, ma resta una struttura piramidale della società, l’idea che esistano persone dotate di super poteri, che superano tutte le difficoltà, self made men e women che non fanno rete, che salvano il mondo da soli. Invece è proprio il “racconto dell’eroe” che va smontato: dobbiamo costruire storie collettive in cui tutti siano responsabili e in cui, al posto dei superpoteri, ci sia la solidarietà. La “salvatrice della Patria” non scardina il sistema di potere».
Però può essere portatrice di valori diversi. Per esempio non aggressivi.
«Ma è già successo. Adesso siamo nella fase Florence Nightingale: delle madre-soccorritrice pronta a immolarsi. Ma non è una novità: ci sono sempre state declinazioni sociali della “sindrome della crocerossina”. Anzi capita spesso che, quando proprio è in crisi nera, una società maschilista si affidi a una donna: perché è sacrificabile. Nel saggio Il sesso del terrore, Susan Faludi ha spiegato bene che cosa è successo dopo le Torri gemelle: le donne sono state ributtate indietro. Gli eroi erano diventati i pompieri: oggi li abbiamo sostituiti con gli uomini in camice. Ma stiamo vivendo la stessa sospensione della libertà».
Che però non riguarda soltanto le donne.
«No certo, ma è sorprendente con quale facilità abbiamo accettato che venissero sospese libertà costituzionali fondamentali. Adesso tracceranno perfino i nostri incontri con una app. Non avevamo mai vissuto una tale limitazione. Sembra di vivere in un film sulla Ddr, ne Le vite degli altri. Ma a nessuno è sembrato strano. E se pure ci verranno restituite tutte le libertà adesso sappiamo con quale facilità le negoziamo. La Svezia non l’ha fatto: anziché considerare i suoi cittadini un mucchio di minorenni da tenere con il bastone, ha fatto affidamento al loro senso di responsabilità. Ma certo, la loro è una democrazia più matura».
Sperando di non portarci le limitazioni, che cosa invece ci porteremo via di buono da questa esperienza?
«Abbiamo capito che non c’è bisogno di spostare i corpi per far muovere le idee. Io ho disdetto in tre giorni gli impegni di tre mesi e poi ho chiamato una serie di editori per proporre loro di rifare online ciò che facevamo dal vivo. In due settimane abbiamo messo su la piattaforma su Facebook Decameron. Una storia ci salverà. Di una cosa sono certa: sopravviverà a questa crisi chi avrà capito che questi strumenti tecnologici sono il nuovo modo di fare cultura e non un surrogato emergenziale, chi ha deciso di imparare e non di tamponare».
Ma lei che cosa sta facendo che non avrebbe mai fatto?
«Con Chiara Valerio, con la quale siamo amiche da sempre, abbiamo pensato che ciò che ci mancava erano quelle conversazioni “non necessarie” che prima facevamo al bar, quegli spazi di “biodiversità”. Adesso è lo Stato che stabilisce che cosa ci è necessario e giustifica il fatto che si esca. Ma noi volevamo salvare il futile e così sul mio canale Youtube abbiamo creato Buon vicinato in cui, per 15 minuti al giorno litighiamo su questioni superflue, come l’eleganza delle suore o se Harry Potter è fascista. Perché abbiamo capito che la serenità è negli interstizi».
Questo le donne l’hanno sempre saputo. Anzi ne hanno fatto un’arte.
«Sì, ma ora possono rappresentarlo».
Valeria Palumbo