Dossier “Donna e bellezza” 4
Tra le innumerevoli icone mariane che l’Oriente cristiano ci offre è impossibile non soffermarci, almeno un poco, davanti alla “Vladimirskaja”, l’icona familiarmente conosciuta con il titolo di “Vergine della tenerezza” di Vladimir. Essa occupa, tra tutte le immagini mariane, un posto particolare nel cuore della Russia, ma è anche l’unica icona che è stata “consegnata” ai cristiani d’Occidente da Papa Giovanni XXIII perché la implorassero a favore dell’unità delle Chiese. L’icona della Madre di Dio (Theotòkos) di Vladimir, città dove fu trasferita nel 1155 prima di passare definitivamente a Mosca nel 1395, segna l’inizio dell’iconografia tipicamente russa dell’Umilenie (Tenerezza); essa congiunge mirabilmente due grandi temi dell’iconografia mariana bizantina, quello della Vergine hodigitria, Colei che indicando il figlio mostra la Via (odòs) e quello della vergine eleousa (pietosa), che accentua la dimensione materna di Maria. Ad un primo sguardo l’immagine della vergine potrebbe apparirci astratta e irreale trovandosi al polo opposto del tipo di Madonna raffaelliano, ma è proprio in questa composta e austera bellezza che emergono i tratti di una creatura umana interamente abitata dalla presenza divina. Il suo volto, dalle linee purissime, manifesta tutta la mobilità e lo spessore dell’esistenza umana, luogo dell’incarnazione del Verbo. I suoi occhi cercano di penetrare il cuore di Dio e nello stesso tempo vanno oltre, verso il cuore del mondo. Le mani affascinano. Una sorregge il Bambino e l’altra, che occupa la parte centrale dell’icona, lo indica, o meglio ancora lo offre a tutti coloro che Lo guardano con gli occhi della fede. Maria è colei che porta Dio e invita anche noi a fare spazio nel nostro cuore per accogliere la vita divina. Se lo Spirito Santo personalizza la santità divina, secondo il pensiero di Cirillo d’Alessandria, Maria personalizza la santità umana. La struttura del suo essere, la sua stessa femminilità, sono la trasparenza dell’umano capace in virtù della grazia, di essere penetrato e di penetrare il mistero divino, benché la sua ombra lo superi (“Ti coprirà con la sua ombra” Lc 1,35) e la sua luce la sconvolge (“A quelle parole ella rimase turbata” Lc 1,29). |
In questa icona sembrano riecheggiare le parole di Giovanni Paolo II, scritte nella Mulieris Dignitatem: “
Maria in questa icona non solo personifica la “Figlia di Sion”, l’erede delle promesse e la parte migliore di Israele, ma personifica tutta intera l’umanità. In Lei è tutta la nostra carne, la nostra terra che accoglie il Signore! È sul suo maphorio (mantello) scuro come i solchi del mondo che riposa lo Splendore del Padre, il Bambino dal volto e dalle vesti raggianti del Cristo Risorto.
Maria gode di una intimità unica con il Verbo della Vita. E Lei sola lo ha partorito al mondo. Di Lei sola Egli porta nel corpo l’impronta, la fisionomia, la carne. Eppure la donna che tutti diranno beata ha, in questa singolarissima icona, lo sguardo penetrato da un’indicibile tristezza. Non badando al dolcissimo abbraccio del Figlio che, prefigurandosi l’ora della croce desidera consolarla, Maria posa lo sguardo su di noi. Vuole che nella profondità dei suoi occhi contempliamo quel mistero iniquitatis che porterà il figlio sul Golgota. Vuole che, nella compunzione del cuore, sentiamo anche noi il dolore a causa della potenza del male (spada) che attraversa le nostre vite personali, la storia del mondo e, nelle lacrime del penthos (pentimento del cuore) sperimentiamo l’infinita misericordia di Colui che vedendo il nostro dolore ci corre incontro e gettandoci le braccia al collo ci dice: “Figlio, ti ho visto quando eri ancora lontano” (Lc 15,20).
Questa icona della tenerezza riesce a descrivere incomparabilmente lo sconvolgente amore di Dio per l’umanità e, allo stesso tempo, l’infinito desiderio di ogni uomo e donna per il suo Dio. “La dignità di ogni uomo e la vocazione ad essa corrispondente trovano la loro misura definitiva nell’unione con Dio. Maria – la donna della Bibbia – è la più compiuta espressione di questa dignità e di questa vocazione” (MD 4).