È nelle primissime pagine di un libro lungo poco più di un opuscolo che mi sono venute incontro, insieme, una domanda e una risposta alla inquietudine di questi giorni. “Mi sono ritrovato dentro uno spazio vuoto inatteso” scrive l’autore. E poche righe più sotto aggiunge “…ho paura che la paura passi invano senza lasciarsi dietro un cambiamento”. Lo scrittore è Paolo Giordano, quello che vinse il Campiello con “La solitudine dei numeri primi”, l’unico ad aver pubblicato un libro sul coronavirus, per così dire, in corso d’opera. Si intitola “Nel contagio” è ha iniziato a scriverlo l’ultima settimana di febbraio, quando ancora si andava a messa, dal barbiere o al ristorante, e a fine marzo era già in libreria. Racconta il coronavirus della grandissima parte di noi, e l’avventura che a ciascuno di noi è stato dato di vivere. A quel “noi”, di cui anche io faccio parte, che non ha preso il virus, che non ha avuto parenti o amici toccati dal covid, che non ha perso il lavoro, che vive in una casa comoda e non distante da un supermercato, che è rimasto incollato ogni giorno per ore alla tv per sapere di più sulla pandemia, che ha scoperto come whatsapp e zoom sono facilissimi da usare per restare connessi, ma soprattutto per sentirsi famiglia e comunità.
Eppure, e nonostante questo, dicevo del senso di inquietudine: come se il tempo e il silenzio, doni che il coronavirus ha portato con sé, fossero doni avvelenati se non fossimo riusciti a dar loro un senso. E il crescere dentro di sé di un sottile filo di paura, sempre più percepibile, legato ad un interrogativo: “e dopo?”. Scoprire che il giovane scienziato Paolo Giordano, condividesse con una signora di mezza (o per dir meglio tre quarti) d’età e tutta studi classici, le stesse domande sulla stagione che stiamo vivendo, è stato consolatorio. Ma la simpatia (nella sua accezione etimologica del patire insieme o del provare le stesse emozioni) si è fermata qui. Perché i quesiti possono essere gli stessi per tutti, ma per le risposte bisogna che ognuno cerchi le sue.
Così mi sono chiesta qualcosa sul tempo, sul “mio” tempo, quello che non trovo mai, quello sempre saturato da mille impegni, quello tutto incasellato dentro un’agenda, dove non c’è mai abbastanza spazio. E dove, per un accidente improvviso, ora c’è tempo per tanto, forse addirittura per tutto, e certamente per riprendere in mano le cose lasciate indietro perché non erano prioritarie. È un tempo nuovo, ricco, prezioso. È una sfida al pensiero e alla capacità di meditazione e io non voglio perderlo. Mai più. Non voglio perdere questo, come tante altre cose che due mesi di isolamento mi hanno aiutato a scoprire di me, degli altri, della vita che facciamo spesso senza averla scelta, come se fosse la vita a dirci come vivere e non il contrario. Ed è qui che, giorno dopo giorno, si è insinuata una specie di paura. Lo dice bene Giordano: paura che questo tempo finisca e tutto torni come prima. Non tanto fuori di noi – perché i cambiamenti dei comportamenti sociali ce li porteremo dietro a lungo – ma i cambiamenti che questo tempo ha innestato dentro di noi. L’importante è averlo capito e l’importante è non dimenticarlo.
Anna C.