«Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!» Gv 20, 2
Questo lungo periodo di confinamento mi ha fatto dolorosamente percepire alcuni fondamenti su cui non mi ero molto soffermata, e questa occasione ne ha fatto risaltare l’importanza. Premetto che so che si è trattato di emergenza, di tempo contingentato, di decisioni difficili, di mancanza di conoscenze sufficienti, di necessità. Ma non mi sfugge il significato simbolico di quanto abbiamo vissuto, e a questo dò parola.
Con il confinamento sono spariti i corpi.
Ognuno è stato rinchiuso nella sua casa, fortunato chi era all’interno di una famiglia, o sfortunato, a seconda dei casi. Ogni casa è a poco a poco divenuta una bolla in cui ci si è adattati a limitare i contatti con gli altri. Questo ha portato nei primi tempi un’euforia di messaggini, telefonate, videochiamate, video riunioni. Poi a poco a poco, tutto si è diradato, ognuno si è cercato un ritmo, uno spazio per mantenere l’equilibrio. Per alcuni questo è stata una sofferenza grande: per chi ha bisogno di contatto fisico per sentirsi in comunione con gli altri; per chi ha bisogno di coccole per percepire di essere amato. Uno spazio solitario in cui la forza delle relazioni si è rarefatta, è diventata sempre più virtuale man mano che passavano i giorni. C’è chi ci si è trovato così bene che nemmeno ora vuole uscire, non se la sente più di affrontare di nuovo la fatica della presenza, la richiesta forte di essere vicino, di farsi carico, di accogliere la fragilità altrui. A molti ha tolto a poco a poco l’energia, la voglia di fare, la concentrazione. La mancanza di movimento, la monotonia dei muri di casa o delle strade intorno, la mancanza di incontri anche casuali, di sguardi, di sorrisi, di saluti li ha fatti fluttuare nel vuoto. Per alcuni il silenzio di casa è divenuto assordante. Per proteggere tutti si è abbandonato ciascuno.
Con il confinamento sono spariti i corpi.
È stata un’esperienza terribile per chi in questo confinamento ha sofferto ed è stato ricoverato in ospedale. È accaduto a mia cognata. Si è dovuto temporeggiare a operare perché ad altro dovevano servire i medici, si è quindi scoperto tardi il tumore che in due mesi l’ha portata via.
Sua figlia l’ha vista allegra e sana, e dopo tre mesi l’ha vista un’ultima volta il giorno prima che morisse. Ha passato tre settimane di dolore fisico insopportabile da sola, senza una mano da stringere per ancorarsi alla realtà che rendesse il dolore confinabile, senza una parola da persone amate, un volto di compassione da contemplare. Mi sono resa conto di quanto la pura presenza fisica di altri che amiamo, anche muta, ci rassicuri, ci permetta di affrontare le difficoltà partendo dallo sguardo di qualcuno che ci accompagna mentre andiamo. Da soli ma senza esserlo. Ci siamo trovati alle celle mortuarie, senza la possibilità di celebrare la sua vita, di onorare il suo corpo nel momento della separazione, senza parole che ci contenessero in un senso al venire meno della vita fisica. Mascherati, impossibilitati ad abbracciarci, senza parole. L’interramento a cui sono stata esclusa perché si superava il numero concesso.
E i corpi dei tantissimi deceduti di Bergamo portati via di notte, fuori dagli sguardi, sui camion militari a simboleggiare la guerra, le fosse comuni in tanti stati meno ricchi dei nostri.
Corpi spariti e i loro mondi, le loro storie silenziate. Solo numeri nelle lugubri statistiche quotidiane. Non ogni persona ma una categoria: gli anziani, quelli con molte patologie pregresse.
Per proteggere tutti si è abbandonato ciascuno…
Chiara Peruffo