Abbiamo preso come filo conduttore di questo tempo la custodia sperimentata tra noi con varie modalità. Custodia come gratuità vissuta verso qualcosa, qualcuno che ci è stato affidato. Cura espressa anche solo verso noi stessi. Vari i modi che sono diventati preghiera: non quella conosciuta, ma che ci ha permesso di dare un senso ai vari segni delle nostre celebrazioni eucaristiche: siamo diventati invocazione, silenzio, sostegno, richiesta di aiuto, sguardo, parola, ascolto… un lasciarci spezzare dal dolore e dalla condivisione … Le nostre famiglie, case, sono diventate i nostri luoghi di culto, arche che hanno attraversato e stanno attraversando le varie tempeste. Lungo la rotta verso l’ignoto, abbiamo speso il nostro tempo per salvare il bene che c’è, che abbiamo dato e ricevuto. Sentire la morte vicina… ci ha fatto comprendere di più la vita, salvandone il valore che molte volte rimane nascosto. Ci ha fatto trovare quello che rimane per sempre, mentre tutto il resto evapora. Nelle nostre morti quotidiane abbiamo salvato l’anelito ad una vita più vera.
Ora stiamo facendo i primi passi di uscita dalle nostre paure (la chiusura nelle case ci ha preservato dal contagio), tentativi di discesa da queste arche/case per dar vita ad una ri-creazione. Anche se incerti sentiamo di dover costruire un nuovo altare, dove deporre le nostre offerte cioè celebrare la vita che sentiamo fecondata da questa esperienza. Le pietre che portiamo per la costruzione di questo altare è il nome nuovo di ciascuno: la piccola pietruzza bianca con su scritto il nome nuovo che non conoscevamo prima di questo attraversamento (Ap 2, 17). C’è una custodia vissuta da celebrare in una lettura sapienziale, consegnando quello che abbiamo attraversato. Un bambino ha detto: io voglio poter raccontare ai miei nipoti quello che ho vissuto. Ecco la lettura sapienziale. Che cosa ci ha segnato dentro, che cosa ci resta come orma indelebile che nessuno ci può portare via… che cosa lasciamo alla generazione futura di questa nostra tragedia vissuta? Poi ci siamo domandati come collocarci in questo delicato passaggio delle nostre comunità cristiane e dei nostri preti. Sembra prevalere un forte bisogno di rassicurazione, di tornare a stare su un terreno conosciuto e sicuro nel celebrare dopo questa clausura forzata, invece di sostare per leggere il tempo di grazia, la fecondità di questo tempo. I nostri pastori si chiedono come essere sostegno per gli altri, per le famiglie, ma potrebbero dedicare del tempo ad ascoltare e accogliere dove li ha condotti il fiuto delle pecore, in questo tempo che hanno pascolato e si sono nutriti lontano dalle parrocchie. Sì, abbiamo avuto uno trasbordare di messe in streaming, rosari, omelie… ma i nostri urli li abbiamo consegnati a familiari, amici, vicini, fratelli e sorelle che ci sono stati accanto in questa attraversata. Ci sono mancati pastori, ma abbiamo trovato fratelli e sorelle e con loro stiamo facendo questi passi di ritorno alla casa del Padre, non in parrocchia.
Ora o le parrocchie ripartono con questa umiltà, in cui tutti ci sentiamo un po’ orfani, compresi i celebranti, o si continua a porre segni senza portare in essi la vita. C’è un bisogno profondo di percorrere insieme questa strada di ritorno al Padre. Nelle celebrazioni di questo tempo abbiamo visto tanti protagonismi. Basta preti, parroci che si mostrano portatori di salvezza, senza mostrarsi anche loro bisognosi, senza fare anche loro quei passi insieme a noi di apertura a quella speranza attesa e non già confezionata. Non è dai loro sorrisi che ci viene la speranza, e neanche dalla possibilità di ritornare a celebrare, ma dal poter portare sull’altare tutti in ugual modo la fatica e la gioia di una vita condivisa.
Maddalena