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Donne: “È ora che la Chiesa si metta in loro ascolto”

Intervista a Marinella Perroni sulla proposta di un Sinodo sulla donna nella Chiesa

*intervista di Francesco Peloso, (fonte vaticaninsider.it).

La proposta della Commissione per l’America Latina di un Sinodo dedicato alla figura femminile fa discutere. Non servono modelli idealizzati, gli uomini capiscano di essere una parte della storia”
 

La priorità per la Chiesa è passare dall’idealizzazione di modelli femminili alla realtà concreta, cioè alle donne in carne e ossa che fanno parte del popolo di Dio. Per questo, forse, più che ad un Sinodo generale sulla donna è meglio pensare a Sinodi locali, nazionali o continentali. D’altro canto le problematiche relative alla donna nella società e nella Chiesa variano a seconda dei contesti. L’ideale in ogni caso sarebbe un Sinodo sui battezzati maschi e femmine, in cui anche gli uomini prendano atto di essere solo metà della storia e della Chiesa. Marinella Perroni, teologa e biblista, fondatrice del Coordinamento teologhe italiane, autrice di numerosi volumi, docente al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma, tocca diversi aspetti del rapporto fra le donne e la Chiesa.  

Professoressa Perroni, come valuta la proposta di un Sinodo generale sulla donna nella Chiesa avanzata dalla Pontificia Commissione per l’America latina?
«Ho qualche perplessità; mi pare che per la Chiesa la priorità sia quella di mettersi in ascolto di tutte le donne, non soltanto di alcune donne a cui si chiede un intervento stabilito, letto prima, corretto, e via dicendo. Ci sarebbe insomma bisogno veramente di un’ampia discussione che tenga presente le donne, non un’idea, un modello, di donna che sarebbe bene ci fosse dentro la Chiesa cattolica; questa è veramente la perplessità. Mentre invece sarebbe positiva, per esempio, l’idea di un Sinodo per l’America latina all’interno del quale la Chiesa latinoamericana – di cui le donne fanno parte perché sono battezzate e cresimate – s’interroga apertamente ampiamente su cosa significa per le chiese in America latina una partecipazione completa delle donne al popolo di Dio, alle necessità del popolo di Dio». 

Dunque meglio sinodi locali o nazionali che affrontano il tema?
«Io credo che più il Papa riesce ad andare verso la decentralizzazione più passiamo dall’astrattezza tematica alla concretezza, e più mettiamo a tema anche la questione delle donne. Credo che il documento della Commissione per l’America latina dimostra che il problema preme e non è un problema astratto; per esempio il prossimo Sinodo sull’Amazzonia non può non pensare alla partecipazione delle donne in Amazzonia in quella Chiesa, con quelle necessità. Più liberiamo il discorso del rapporto Chiesa-donna dall’astrattezza, da una idealizzazione della donna, diciamo anche da una retorica di quello che ci si aspetta dalle donne, meglio è. Si tratta di un bagaglio che la cultura attuale sta cercando di purificare da tempo per tornare ai sani registri della realtà. Se invece dobbiamo pensare a 300 uomini di Chiesa che devono discutere del ruolo ideale della donna, esprimo qualche perplessità».

Il calo delle vocazioni è un fenomeno generale, tuttavia nel caso della vita religiosa femminile si assiste in diverse parti del mondo ad un crollo. Che segnale è questo?
«Il calo delle vocazioni delle religiose certo rientra nel calo generale delle vocazioni ma fa anche parte dell’esodo delle donne dalla Chiesa, e questo è il problema. Il mondo delle donne è talmente cambiato da circa 150-200 anni a questa parte, ed è talmente in ebollizione, che non si può pretendere di riportarlo all’ordine, di normarlo, di farlo stare dentro le categorie, i modelli precedenti solo un po’ svecchiati. Qui non si tratta di rinnovare il guardaroba, ma di ascoltare le voci femminili, non quelle ammaestrate, ma di andare ad ascoltare correnti di pensieri diversi. Pensiamo a cosa è stato il rapporto fra Vaticano e suore americane, quello è stato un vulnus per il mondo femminile della Chiesa; non è possibile mettere le donne le une contro le altre, le rigide contro le progressiste, non è questa la strada. Uno scisma nascosto delle donne va avanti da decenni». 

C’è anche un problema di ruoli, sono sempre pochissime le donne ai posti chiave nella Curia vaticana e non solo…
«Ma non è che il problema si risolve con una nomina che diventa lo specchietto per le allodole. Il problema della Chiesa è sistemico a livello di partecipazione; il Concilio Vaticano II ha cominciato a far capire che il problema era sistemico per esempio rispetto ai laici, sulle donne non è che avesse particolari prospettive, nemmeno se ne rendevano conto. Immediatamente dopo, però, a quella dei laici si è andata a sommare la questione delle donne, delle religiose. Questa ebollizione che c’è da decenni ed è stata sempre un po’ silenziata seguendo un’apologetica del femminile che non corrisponde allo sforzo che le donne hanno fatto di creare una cultura, di porre problemi, di pretendere interlocuzioni. Siamo in un mondo nel quale purtroppo – lo dico da donna di fede – sembra si possa vivere benissimo senza Dio. Anche le donne, tutto sommato, fanno presto ad andarsene dalle chiese».  

Proprio in America Latina, ci sono stati molti esempi di leadership femminili in campo sociale come nella difesa delle popolazioni indigene, non è venuto il momento di valorizzarli?
«Bisognerebbe decidersi a farlo. Se si pensa che al Concilio Vaticano II, 50 anni fa, sono state chiamate alcune donne – in qualità di uditrici – fra le quali anche latinoamericane, di queste una era argentina, la più giovane del gruppo, Margarita Moyano responsabile del Consiglio superiore delle giovani dell’Azione Cattolica; altre erano a capo di grandi organizzazioni, e noi siamo qui a questuare qualche piccolo ruolo dentro la cittadella vaticana. Già la realtà aveva spinto in avanti, ci sono state donne non solo fantastiche per virtù personali ma perché hanno aperto pioneristicamente delle strade nella Chiesa cattolica e avevano anche un seguito notevole. Purtroppo se non si prendono sul serio i movimenti storici a un certo punto si sbatte contro il muro. E credo che su alcune cose si sia tornati indietro».  

Il Papa di recente, proprio in America Latina, ha denunciato il “machismo”, ha parlato di “femminicidi” , in questi anni ha toccato più volte la questione femminile…
Il magistero di Francesco sulle donne è importante, il Papa certamente ha toccato vari punti in diverse occasioni; per esempio quello dell’ingiustizia sul piano retributivo per il lavoro delle donne, poi quando è andato nelle Filippine, nel 2015, e ha detto che non si devono fare figli come conigli, sono tutte “pizzicate” molto centrate. Un’altra cosa che ha solo adombrato ma si tratta di un aspetto fondamentale è cominciare il discorso sui maschi e non solo sui “machi”. Il giorno di San Giuseppe ha tirato su un lembo che magari lo sollevasse d’imperio. Sono infatti 200 anni che le donne cercando di capire chi sono, cosa vogliono, cosa possono dare alla storia, cosa gli è stato negato, si sono messe in movimento. Ma i maschi si vogliono mettere in movimento? Finché i maschi non riconoscono la loro parzialità il problema non si affronta fino in fondo. Io farei un Sinodo sui battezzati maschi e femmine per capirci. Aprirei la questione dei maschi, perché o i maschi accettano di essere una parte dell’umanità e allora si capiscono dentro l’umanità come una parte, oppure siamo sempre alla pretesa di parlare delle donne, sopportare le donne, aver pazienza che le donne facciano i loro percorsi».

Nel documento della Pontificia Commissione per l’America Latina si parla di paternità responsabile, di superamento di comportamenti sessuali irresponsabili…
«Dire queste cose lì, in America Latina, parlare di paternità responsabile, significa rifondare il mondo. Mi sento di dire però che non possiamo generalizzare, in questa parte del mondo non c’è lo stesso problema di irresponsabilità sessuale, noi abbiamo un altro tipo di problematica del maschile e del femminile. Quindi credo che sia estremamente importante declinare la questione a livello locale, sinodale, e dare la parola ai soggetti reali, alle donne reali».  

Se dovesse indicare delle priorità su questo tema, delle urgenze cui mettere mano, da cosa comincerebbe?
«Vorrei, per esempio, che tutta la storia del femminismo con le sue luci e le sue ombre, perché non esiste una storia senza luci e ombre, non è che la storia della Chiesa sia meno problematica della storia del femminismo, diventasse patrimonio condiviso, con tutto quello che ha significato. L’ascolto delle donne è fondamentale. Invece la nostra Chiesa si è ostruita alla possibilità di fare patrimonio di tutto questo, certo valutando, discernendo, ma soprattutto cercando di capire. Al contrario il femminismo l’ha rifiutato, per altro le prime critiche alle questioni di “genere” sono venute dalle femministe non dalla Chiesa, allora se sapessero un po’ di cose si ragionerebbe diversamente, c’è troppa ignoranza su tutto ciò che riguarda il pensiero delle donne costruito in questi decenni. Finché nella Chiesa non diventa patrimonio condiviso una certa conoscenza si deraglia inevitabilmente. L’altro giorno parlavo con un sacerdote, un professore, che fa lui il corso di Teologia femminista e ho detto: finalmente, questo è un segno di futuro, perché mica devono essere solo le donne a parlarne; è come se dicessimo della storia del Risorgimento ne parlano solo i garibaldini, non è possibile, ne parlano tutti, è storia, è vita. Un po’ più di coraggio e di conoscenza prima di difendersi e di attaccare».  

Si parla molto delle riforme di Francesco, in questo campo cosa auspica?
«La riforma prima promossa dal Papa è la riforma delle coscienze, dei comportamenti, degli orientamenti di fondo. Ecco, io ci aggiungerei una riforma del coraggio, la volontà di assumere la storia, di conoscerla, e non di trincerarsi; e questo Francesco lo dice in tutti i modi: una Chiesa che si trincera, non capisce niente, fa solo del male, non c’è da trincerarsi, c’è bisogno di stare nel mondo e di capirlo».