Dina era la figlia di Giacobbe e della sua prima moglie, Lia. La sua storia occupa pochi versetti nella lunga epopea di Giacobbe e delle tribù che nascono dai suoi dodici figli maschi. Versetti di una inaudita violenza che disturbano e che non si vorrebbero leggere, soprattutto se i protagonisti sono uomini di Dio, i fondatori di Israele.
Dina, ci dice il testo, era uscita dal suo accampamento per vedere le donne di Sichem. Probabilmente contro le regole del suo clan; una scelta di libertà per guardare e incontrare altre donne diverse da lei. Invece, è lei a essere notata dal figlio del capo di Sichem che la porta nella sua tenda e la violenta. “È andata a cercarsela”, diremmo oggi?
Anche se poi chi la violenta vorrebbe sposarla, il suo gesto provoca una reazione devastante da parte dei fratelli di Dina che vogliono salvare il suo (il loro?) onore. Verranno – con l’inganno – uccisi uomini, rapite donne e bambini in un crescendo di violenza e orrore.
Dina verrà riportata a casa, senza che le venga attribuita, nel testo, nessun sentimento e nessuna parola.
Il nome ebraico Dina significa “giudicata”; nel testo biblico il suo silenzio diventa assordante e i confini della sua figura diventano sempre più indistinti a racchiudere tutte le altre donne a cui nelle Scritture si usa violenza, che non contano, che non possono prendere la parola.
Alcune studiose della Bibbia parlano di una tredicesima tribù a fianco delle dodici tribù dei figli maschi di Giacobbe/Israele: la tribù di Dina. A questa tribù possono appartenere le donne che in ogni tempo vengono silenziate, violentate, rapite, incarcerate, uccise in ogni angolo della terra… e quelle che di queste sorelle vogliono essere voce e sostegno.
Donatella Mottin
[l’illustrazione in copertina è di Silvia Gastaldi]