I commenti di Donatella Mottin
Giovedì santo
“Nella notte in cui fu tradito… disse ai suoi discepoli…”
Ad ogni celebrazione eucaristica vengono ripetute queste parole per fare memoria degli avvenimenti del giovedì santo. Anche se, in realtà, la cena non avviene in piena notte, si sottolinea l’oscurità del momento, la ‘notte’ che accompagna anche ogni nostra sofferenza e angoscia profonda, quando nel nostro cuore e nella nostra mente c’è il buio e sembra impossibile trovare anche solo un po’ di luce.
Anche per Gesù, quelle ore di consapevolezza della fine ormai imminente della sua esperienza terrena, devono essere state ‘buie’, ma ciò nonostante – o forse proprio per quello – Gesù vuole trascorrerle con chi è stato con lui per anni, con chi l’ha seguito riconoscendo in lui il solo che poteva mostrare il ‘volto’ di Dio.
Dovremmo meditare molto sul fatto che tutti i ‘segni’ fondamentali che Gesù fa in quella notte sono compiuti con Giuda ancora presente: il pane spezzato e il calice offerto sono condivisi quando già “il diavolo era entrato dentro di lui” e anche a Giuda, Gesù lava i piedi.
Quanto hanno ancora da dire questi gesti a una chiesa che deve abbandonare la pretesa di ‘giudicare’ e rendere sempre più autentici i propri atteggiamenti nei confronti di chi considera ‘peccatore’!
Gesti e parole rivolti da Gesù ai discepoli, come ascoltiamo in ogni messa. Vari passaggi nei quattro Vangeli portano a pensare che non ci fossero solo i dodici. Marco sottolinea che dei discepoli entrano in città per preparare la Pasqua nella stanza del Cenacolo (14,16) e solo a sera Gesù arriva con i Dodici; Giovanni, che usa solo la parola discepoli e non apostoli, nel lungo discorso finale di Gesù annota una domanda fatta da Giuda, non l’Iscariota, che non faceva parte dei Dodici. Anche in Atti 1,15-26 Pietro, per sostituire Giuda, propone la scelta tra chi era stato presente “a cominciare dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui (Gesù) ci fu portato via” quindi anche alla cena.
E le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea? Sicuramente anche loro erano a Gerusalemme con Maria, la madre, visto che il giorno successivo lo seguono sul Golgota; molto probabilmente, proprio al Cenacolo torneranno per annunciare il sepolcro vuoto e lì, con gli altri e Maria, riceveranno lo Spirito a Pentecoste.
Possibile che Gesù non abbia desiderato trascorrere anche con loro quel momento? Questa domanda può essere letta come una ‘rivendicazione’? Forse sì, ma non per ottenere prestigio o ruoli ‘istituzionali’, quanto per veder riconosciuta una ‘presenza’ e soprattutto la necessità di continuare a interpellare e farci interpellare dalla Parola, per essere sempre più fedeli – nel nostro tempo – all’amore che Gesù ha avuto “fino alla fine” per tutti gli uomini e per tutte le donne.
Venerdì santo
“Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Cleopa e Maria di Magdala”.
Sono le ultime ore della vita di Gesù, la croce, supplizio per i maledetti da Dio. Ore interminabili di sofferenza inaudita per chi è sulla croce, ma anche per chi si trova e ha scelto di stare ai piedi di quella croce. Non fuggire, come hanno fatto gli apostoli, ma ‘restare’ anche se fa male, anche se il dolore sembra insopportabile, per poter ‘vedere’ e imparare come rimanere, con la stessa forza e consapevolezza, nelle nostre storie e nelle nostre sofferenze.
“Gesù sapendo che ormai tutto era compiuto… disse: ho sete”.
La dichiarazione della sete di Gesù, pronunciata in un tempo verbale presente, la rende intensa, attuale e interminabile. È come lo dicesse ancora oggi e chiedesse a ciascuno, con queste parole, di ascoltare la propria sete e quella di tanti uomini e donne nel mondo. Quella sete che è condizione per cambiare le cose e le situazioni, se abbiamo il coraggio di interrogarci su di essa.
Sembra riproporsi quanto accaduto nell’incontro con la Samaritana: se in quella occasione alla sete di Gesù era corrisposto il suo annuncio di essere ‘l’acqua viva’ che spegne ogni sete, ora alla sete di Gesù corrisponde la consegna/dono dello Spirito, la Pentecoste come viene raccontata da Giovanni. Dal ‘fiume di acqua viva’ che sgorga dalla ferita che il soldato (19,35) aprirà con la spada nel fianco di Gesù, ci giunge la ‘salvezza’ che può essere balsamo per la nostra ‘sete’, per ricordarci che essa passa anche attraverso le ferite più profonde.
Sabato santo
“Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era prescritto”.
Questo osservare delle donne diventa un elemento di fedeltà, un non voler perdere nulla del tempo, tutto prezioso, che riguarda Gesù. Poi, tornano indietro.
Da questo momento, fino alle prime luci della risurrezione, loro che non contavano nulla, per le quali nemmeno esisteva il termine femminile di ‘discepolo’, diventano le ‘protagoniste’.
È un tempo che sembra sospeso, un tempo che bene conosce chi ha vissuto le ore che seguono la morte di una persona cara ed è, psicologicamente e affettivamente, molto lungo.
Un tempo di dolore, di sofferenza, di domande, che queste donne ci insegnano ad ‘abitare’: tornano a casa e si mettono a preparare profumi, aromi e oli profumati. Sono gesti importanti perché nella tradizione biblica indicano qualcosa di prezioso: un rituale di amore, bellezza, di ‘spreco’ addirittura, in contrapposizione all’odore, al sangue, alla morte.
Poi inizia il sabato; l’osservanza del ‘riposo’ richiesto dalla Legge che ora assume un valore diverso: ci sono il silenzio, il vuoto e l’angoscia di un’assenza che tolgono il respiro.
C’è tutto lo spazio di un giorno, per vivere l’incredulità di quello che è successo; per ripercorrere, ora per ora, le parole, le sofferenze e, quello che fa più male, il ‘silenzio’ di Dio.
È questo silenzio l’estrema ‘provocazione’ alla fede, che fa dire all’Abbé Pierre: Ogni credente non può esserlo, su questa terra, che ‘malgrado’.
È necessario fare i conti con il silenzio e l’assenza del sabato, perché sono segni di qualcosa che è parte fondante della nostra umanità e del nostro stare al mondo.
“Dio mio ho compreso, ho capito che tu non puoi aiutarci, ma che noi dobbiamo aiutarti… Possiamo far sì che qualcosa di divino sia ancora qui presente” (Etty Hillesum).
Donatella Mottin
direttrice CDS Presenza Donna