Sabato 25 novembre 2023, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, vi diamo appuntamento alle 19.00 presso la chiesa di San Lorenzo a Vicenza per “MAI PIÙ”, un momento di preghiera ecumenica per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Il commento biblico sarà offerto da Lucia Fontana, teologa cattolica e socia di Presenza Donna.
Il momento di preghiera è realizzato dall’associazione Presenza Donna in collaborazione con la Chiesa evangelica metodista di Vicenza, la Congregazione delle suore Orsoline scm, il Centro culturale San Paolo, la Voce dei Berici e l’Ufficio di Pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Vicenza.
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Pubblichiamo di seguito il testo del commento di Lucia Fontana al brano biblico 2Sam 13,1-22.
Perché l’autore biblico ha voluto mantenere questo testo che sicuramente non mette in buona luce la monarchia d’Israele?
Perché raccontare di un atto che “non si fa in Israele”, commesso da Amnon, figlio di re Davide?
Perché descrivere una scena di uno stupro, che al tempo prevedeva come pena la lapidazione, sia per l’uomo che per la donna?
A queste domande si possono dare due risposte, la prima: l’episodio della violenza di Tamar è funzionale al racconto perché ha dei richiami immediati con i capitoli precedenti e allo stesso tempo introduce il capitolo successivo. I capitoli precedenti raccontano il peccato di Davide, l’adulterio con Betsabea; il capitolo successivo, la reazione di Assalonne alla violenza commessa da Amnon su Tamar.
La seconda risposta alle domande, invece, riguarda la capacità di questo testo di fare luce sulla situazione attuale, di spiegare che cosa accade ogni volta che una donna subisce una violenza domestica, attuata da una persona non sconosciuta, ma con la quale ha o aveva un certo tipo di relazione affettiva.
Il Secondo libro di Samuele appartiene alla sezione dei liberi storici. Tuttavia questo capitolo ha quasi le caratteristiche di un racconto metastorico: un racconto al di là della storia, dove il tempo e lo spazio sono universali; un racconto, insomma, che non fa parte della storia, ma che questa storia la spiega e la interpreta.
Entriamo ora nel testo.
Tamar è presentata nel primo versetto come la sorella di Assalonne, figlio di Davide. Quindi anche Tamar è figlia di Davide. Ella non è l’unica Tamar che viene nominata nella Bibbia: Tamar è la nuora di Giuda nel libro della Genesi, Tamara sarà anche la figlia di Assalonne.
Il termine Tamar in ebraico significa “palma da dattero” e la palma è, secondo la simbologia, segno di trionfo e di vittoria sulla morte: ecco allora le palme durante l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. Inoltre la palma, nel Cantico dei Cantici, è simbolo di bellezza, e di Tamar, in questo primo versetto, si dice proprio che era molto bella. Si dice poi che era vergine, betùla in ebraico, cioè una ragazza in età da marito.
Nei primi versetti è presentato anche Amnon che, dice il testo, “si innamorò di lei. Ne ebbe una tale passione da cadere ammalato a causa di Tamar”. In quanto ragazza in età da marito, che probabilmente viveva in una parte del palazzo dedicata alle donne, non le poteva fare niente.
Quindi, Amnon è ammalato, e la colpa del suo male è di Tamar. Prima colpa a lei attribuita.
Come fare? Ecco allora Ioanadab, uomo saggio (ma non di quella saggezza che è dono di Dio), uomo astuto, esperto e ha un’idea: «fingiti ammalato (deve fingere cioè che già è), e dì a tuo padre che staresti meglio se Tamar potesse venire da te e prepararti da mangiare». E così succede.
La complicità di Ioanadab e Davide porta Amnon a fare ciò che fin dall’inizio aveva in mente. Allora, arrivata Tamar, per prima cosa fa uscire tutti dalla stanza; poi chiede a Tamar di portargli il cibo che gli ha preparato; infine, mentre ella gli porge il cibo, la afferra: «Vieni, giaci con me!».
Tamar è molto ferma e chiara, sa chiamare le cose con il loro nome e le sue parole suonano come un’accusa: «no, fratello mio, non farmi violenza. Questo non si fa in Israele: non commettere quest’infamia!». «Io dove andrei a finire con il mio disonore?
Tu diventeresti uno dei più infami in Israele».
In sintesi gli dice: “Amnon, ragiona! Perché fai violenza a me, perché stai andando contro la legge e perché ne va anche della tua reputazione”.
E gli suggerisce anche una soluzione pratica: “parlane con tuo padre, il re. Perché se veramente sei innamorato di me, egli non mi rifiuterà a te e accetterà il matrimonio”.
«Ma Amnon non volle ascoltarla: fu più forte di lei e la violentò giacendo con lei».
A questo punto nel testo si legge una riflessione psicologica molto profonda, un capovolgimento di emozioni che non ha una spiegazione, ma è messa lì, è una sorta di polarizzazione tra odio e amore: Amnon concepì verso di lei un odio grandissimo: l’odio verso di lei fu più grande dell’amore con cui l’aveva amata prima.
Le disse: «Аlzati, vattene!». Notiamo qui una simmetria: prima «vieni, giaci con me», ora «alzati, vattene». Aggiunge: «Caccia fuori di qui costei e sprangale dietro la porta». Costei… non più “sorella”, come era stata chiamata finora. Non c’è più alcun rapporto che lega Amnon a Tamar, non sono più figli dello stesso padre, ma lui ora è un infame (come Tamar aveva avvertito) e lei è “costei”. Che ne sarà di lei?
Dunque Amnon è carico di odio ed ha cacciato Tamar, perché la colpa è sua:seconda colpa a lei attribuita.
La reazione di Tamar è molto forte: denuncia: «questo male, che mi fai cacciandomi, è peggiore dell’altro che mi hai già fatto!». E Amnon per la seconda volta non la ascolta. Poi sparge polvere sulla testa, si straccia i vestiti e grida. Tamar era una donna conosciuta a corte e questi suoi comportamenti visibili ed udibili costituiscono un gesto pubblico, un’accusa contro Amnon. Tamar non vuole che quanto le è successo rimanga sconosciuto e impunito. Tamar non ha colpe, anche se, come abbiamo visto, Amnon la colpevolizza per ben due volte.
Per questo grida, si fa sentire e vedere. E a cogliere la sua disperazione è Assalonne, suo fratello, il secondo uomo che, in realtà, le attribuisce un’altra colpa, la terza, anche se cerca di nascondere questa colpevolizzazione dietro un gesto di aiuto. La terza colpa attribuita a Tamar è quella di aver gridato per far sapere a tutti ciò che è successo.
«Forse Amnon tuo fratello è stato con te? Per ora taci, sorella mia: è tuo fratello. Non fissare il tuo cuore su questo fatto».
La parvenza è certamente quella di una buona intenzione da parte di Assalonne, ma solo la parvenza. «Taci», le dice. E così Tamar è condannata al silenzio e non può invocare giustizia.
Questa storia è poi condannata ad essere la causa, o il pretesto, di un omicidio. Infatti, in seguito, Assalonne vendicherà la violenza subita dalla sorella, uccidendo Amnon.
In Italia, l’80% dei casi di violenza sulle donne avviene all’interno di quella che è o era una relazione affettiva (partner, ex partner, famigliari). Inoltre, solo 2 donne su 10 sporgono denuncia dopo aver subito una violenza. Perché? Le motivazioni sono diverse: perché temono le ripercussioni della denuncia; per paura del giudizio; per motivi di dipendenza economica; per il trauma subito; perché manca la fiducia nel sistema giudiziario; perché a volte non si conoscono i centri antiviolenza e soprattutto perché le donne vivono in un sistema che le colpevolizza (si tratta di vittimizzazione secondaria.
Tutto questo la storia di Tamar lo sottolinea molto bene: Tamar non ha colpe, ma agli occhi degli uomini, agli occhi di Amnon, di Ioanadab, di Davide e di Assalonne, invece sì. E se il potere in quella società ce l’hanno gli uomini, Tamar deve tacere e lasciar fare a loro.
Nella violenza domestica, fisica e verbale, la colpevolizzazione della vittima c’è sempre: è lei che ha provocato. E per questo deve stare zitta e non denunciare. Spesso non si rende nemmeno conto di aver subito una violenza.
«L’azione dell’uomo viene sempre raccontata come una reazione. Questo e un problema serissimo perché poi diventa difficile anche denunciare» (Michela Murgia).
É un problema culturale e sociale: è da questo livello che dobbiamo partire se vogliamo cambiare qualcosa.
Oggi quindi ci chiediamo: cosa può fare l’educazione, cosa può fare la scuola, cosa può fare la famiglia, cosa possono fare le istituzioni. Ma ci dovremmo chiedere anche, cosa possiamo fare noi nelle nostre chiese perché nelle nostre comunità non ci siano discriminazioni di genere e rapporti di potere non equi?
Allora non resta che unirci al grido di Tamar, che arriva fino a noi. Farci sentire tutte e tutti, donne e uomini, denunciare, non colpevolizzare le vittime, non nascondere la realtà e chiamare la violenza di genere con il suo nome, riconoscerla come un problema culturale e sociale e come frutto di uno squilibrio di potere. Servono le voci di tutte e di tutti per dire Mai più!, per dire basta! E agire veramente e democraticamente per cambiare questo mondo in un mondo senza gerarchia di genere, senza discriminazioni e senza violenza.
Per concludere: a Tamar sembra fare eco il profeta Isaia al capitolo 42:
“Per lungo tempo ho taciuto
Ho fatto silenzio, mi sono trattenuta;
Ora, griderò».