Anch’io, come altri, m’interrogo sul volto di chiesa percepito dalle persone (credenti e non credenti) in questo tempo di sospensione. Non potendo concretamente andare in chiesa per le celebrazioni, o in parrocchia per incontri vari, si è detto che le chiese hanno chiuso. In realtà siamo chiesa, connessi gli uni gli altri tra cristiani nel “noi” della fede e in relazione di fraternità con tutti, non quando andiamo in chiesa o in parrocchia, ma nei luoghi molteplici della vita.
Lo siamo in casa e in famiglia, chiesa domestica fin dagli inizi dell’esperienza cristiana, come lo siamo, per dire un altro luogo significativo, sul posto di lavoro. E se si tratta di un ospedale, una casa di cura, una residenza per anziani, le storie di questo periodo ci mostrano quanta chiesa c’è stata nelle persone curate e in quelle che le curavano. Forse si è in parte realizzata quella “chiesa in uscita” di cui tanto si parla, non perché alcuni preti sono andati per le strade deserte a benedire o sui tetti delle case a dire messa, bensì per un’esperienza molto “laica” della sequela di Gesù.
È vero che la componente laicale nella chiesa, donne per prime, non ha titolarità riconosciuta fino in fondo, e questa è una questione cruciale per essere davvero popolo di Dio. Ma l’esperienza di questo tempo mi fa desiderare un fare chiesa dal volto più laico, che riduce all’essenziale il radunarci attorno al Cristo Parola e Pane spezzato, mentre dà spazio e tempo al disperderci nella vita per condividere la sua presenza, visto che Lui è già là.
Dario