Cristina Simonelli fa il punto dopo l’ultimo convegno CTI
di Cristina Simonelli, presidente CTI (fonte: Il Regno delle donne)
“Teologhe e teologie” è il titolo della collana che il Coordinamento
teologhe italiane (CTI) ha appena avviato presso l’editore Nerbini (qui il primo volume), ma rappresenta anche bene il lavoro svolto nel seminario annuale dell’associazione, svoltosi a Roma il 14 aprile: attento al presente,
non ignaro delle sue radici, ma rivolto soprattutto al futuro, come il
suo titolo – Verso dove? – segnalava.
PRESENZE E CONTENUTI
Un centinaio di partecipanti da tutta Italia, teologhe soprattutto e
alcuni teologi, di diversa età e di diversa collocazione nel mondo delle
pratiche teologiche: docenti e studentesse, giornaliste e giornalisti,
socie di realtà importanti come il Segretariato attività ecumeniche, Pax
Christi, Presenza Donna. Una giornata intensa, ospitata dalla
Pontificia università Antonianum, di cui è magnifico rettore suor Mary
Melone: una Facoltà di teologia, un luogo accademico importante che pure
porta con sé elementi profetici e dirompenti quali la tradizione francescana e minoritica, e oggi anche ciò che qualcuno può considerare eccezionale, ma è qui ordinario, cioè la “presidenza” di una donna.
Presenze e luoghi che hanno fatto da trama all’intero lavoro, strutturato attorno a due relazioni magistrali che presto metteremo a disposizione di un più vasto pubblico: quella di Elizabeth Green, teologa femminista di fama internazionale e pastora della Chiesa Battista, attualmente a Cagliari, e quella di Milena Mariani,
teologa sistematica esperta soprattutto della teologia del XX secolo
nonché direttrice dal 2012 al 2017 del Corso superiore di studi
religiosi (CSSR) di Trento. Quello che ha raccolto insieme le due
proposte è infatti rappresentabile con la metafora spaziale evidenziata
nell’Antonianum: attraversamento costante delle periferie, dei margini
densi di vita che ogni centro crea e da cui – reciprocamente ma non
automaticamente – ogni centro può essere interpellato e messo in
discussione.
DONNE E TEOLOGIA: “ANOMALIA ITALIANA”
Così è per il caso donne e teologia, considerato nella prospettiva che lega il rapporto tra Fede e femminismo, proposto da Green, alla lettura dei luoghi accademici e formativi della Teologia in Italia realizzata da Mariani. Le donne, soggetto politico ed ecclesiale
pervicacemente spinto ai margini delle società e delle Chiese, sempre
hanno elaborato strategie di resistenza e punti di vista significativi, e
dal secolo scorso, sia pure a macchia di leopardo, hanno messo in discussione e trasformato non solo la loro marginalizzazione, ma la mappa stessa.
Per questo alcune hanno addirittura parlato di “morte del patriarcato”,
il quale tuttavia mostra capacità camaleontiche e dà più o meno
evidenti segni di ripresa. Si tratta dunque di non perdere l’eredità,
ormai consistente, di pensieri e pratiche, ma anche di attraversarla in
forma critica e dinamica, perché differenza e genere sono categorie
analitiche e trasformative e dunque non possono essere assunte in forma
rigida e statica.
Aspetti simili si hanno in quanto riguarda i laici – e dunque “tutte
le donne della Chiesa cattolica” – nella teologia: nel quadro della “anomalia italiana”,
cioè l’assenza di Facoltà di teologia nel sistema universitario statale
che dura ormai dalla fine del XIX secolo, subito dopo il Concilio
avviene una lenta ma costante trasformazione. Iniziando dalle Facoltà
pontificie romane ed estendendosi alle Facoltà teologiche legate alla
Conferenza episcopale italiana (attualmente sono nove), le studentesse
si iscrivono, ottengono i titoli di studio fino al Dottorato, alcune
diventano docenti.
Se tutto questo ha ricevuto attente ma ancora iniziali ricerche sociologiche[1], la portata ecclesiale e il significato globale del fenomeno chiedono di essere ancora ripensati e intrecciati su un
piano più ampio, realizzato in primo luogo dalla presenza e attività
delle Facoltà valdese e avventista, ma anche dalla creazione, trasformazione e ora riduzione (che si deve indicare come “accorpamento”) degli Istituti superiori di scienze
religiose (ISSR). A maggior ragione esso va ripensato e anche monitorato
– e non stiamo mancando di farlo – ora che, a dispetto dei tempi e
delle speranze di riforme, sembra di trovarsi di fronte a una resistenza
come quella del patriarcato – o a una sua forma? – altrettanto
camaleontica, che produce tagli nella formazione, blocco nel passaggio
da un livello all’altro (impossibile da scuole di formazione passare a
ISSR, se non iniziando daccapo, difficile il passaggio da ISSR al
livello istituzionale, il solo che consente i gradi superiori e dunque
la docenza) e esclusione delle donne dai percorsi in cui si trovino anche seminaristi, sulla base di norme restrittive e desuete che sembrano tuttavia avere più forza delle Esortazioni Apostoliche (Veritatis gaudium, Gaudete et exsultate).
Se vogliamo usare ancora la metafora precedente, si potrebbe forse parlare di un percorso andato dai molti margini delle forme di apprendimento autodidatta verso il centro della teologia accademica, che era stato riserva clericale. Anche se la
questione può essere diversamente interpretata (qualcuna ritiene il
gioco “truccato”), resta il fatto che proprio mentre le mappe generali
cambiano e chiedono sia pluralità di soggetti che finezza di lettura,
sembra riemergere una forza centrifuga che spinge nuovamente “fuori” chi vuole studiare teologia – laici e laiche, specie se di luoghi
geograficamente distanti dalle Facoltà – e anche docenti che trovano
“chiuso” l’istituto di appartenenza.
Le immagini, si sa, sono sempre molto approssimate; ne accosto perciò volentieri un’altra, incontrata durante un panel che il CTI ha organizzato nell’ambito dell’European Academy of Religion di Bologna. Nella Sala Carducci di Palazzo Poggi che ci ospitava, ci
guardava con un sorriso appena accennato il dagherrotipo di Oda Mantovani,
con la didascalia a ricordo del suo primo giorno di università:
«Sedetti e attesi. Carducci entrò e attraversata l’aula venne a
piantarmisi proprio davanti. Egli squadrò me da capo a piedi, poi
ridendo forte mi chiese se non avessi sbagliato porta».
Forse la scena in qualche modo tende a ripetersi e alcuni ritengono
che abbiamo sbagliato porta. Possiamo rassicurarli: siamo proprio
convinte di no. Certo le porte ci piacciono aperte, piene di soglie,
continuamente attraversate, mai escludenti. Comunque, forse non saremo
eleganti come quella signora, ma come lei e come molte altre, siamo
tenacissime.