L’articolo di Marinella Perroni sull’Osservatore Romano
* riportiamo di seguito l’articolo di Marinella Perroni pubblicato dall’Osservatore Romano (fonte qui). Puoi leggerlo anche in inglese (qui) e in francese (qui).
«Ci vediamo all’angolo tra la trentaseiesima e la ventiquattresima»: tutte le volte che sento questa espressione nei telefilm americani mi domando se le strade di Manhattan non sono dedicate a personaggi illustri della storia semplicemente perché è più comodo oppure perché da quelle parti hanno un’altra idea della memoria storica. Da noi la toponomastica delle città è una sorta di archivio: della nostra geografia o delle nostre conoscenze botaniche ma, soprattutto, della nostra storia. Non di tutta, però, come dimostra una rapida ricerca su Google: la toponomastica femminile delle nostre città denuncia un’enorme sproporzione tra nomi di uomini e nomi di donne e conferma che la nostra memoria storica è mutilata, perché le tante donne che hanno collaborato a costruire la trama culturale, politica, religiosa del nostro paese sono pressoché invisibili. Alcune di loro cominciano a far parte della memoria locale, ma con tutta la dovuta marginalità.
Nelle periferie della storia
A Elisa Salerno, per esempio, da meno di vent’anni è dedicata una strada della sua città natale, Vicenza, nella più sperduta periferia. Per di più, è una strada che gira a tondo e torna su sé stessa, non sbocca da nessuna parte. Solo due anni fa, poi, grazie alle pressioni di Presenza donna, l’Associazione che ne tutela la memoria, è stata apposta una targa sulla casa in cui ha vissuto. Già, ma chi è Elisa Salerno e perché dovrebbe meritare una strada o una targa?
Proprio qui sta il punto. La “sua” strada non sbocca da nessuna parte e sta in periferia perché anche lei, come tante donne, è stata tenuta nelle periferie della storia e di loro nessuno, a scuola, ci ha mai raccontato nulla.
Nell’esergo di un bel saggio su di lei Anna Maria Zanetti cita le parole con cui la stessa Salerno definisce sé stessa: “Sono nata presto, sono nata troppo presto”. Elisa Salerno è una di quelle donne, tante, che sono nate troppo presto perché hanno avviato processi storici talmente rivoluzionari che chiedono tempi lunghi per svilupparsi e per diventare patrimonio comune.
Cattolica e femminista: se è difficile a tutt’oggi spiegare che non si tratta di un ossimoro, figuriamoci quale scandalo questo accostamento doveva suscitare agli inizi del Novecento, quando Elisa Salerno (1873-1957) ha fatto quello che le donne sanno fare con sapienza: intrecciare insieme vicenda personale e congiuntura politica, convinzioni intellettuali e scelte religiose. Senza paura di pagare il prezzo di un’ingiusta interdizione. Aveva capito che nessuno era disposto a riconoscere alle donne il diritto di parola e, allora, la parola bisognava prendersela. Per questo ha fondato e diretto un giornale in grado di dare la parola alle donne, soprattutto lavoratrici, e ne è stata anche l’editrice.
Istruzione e lavoro
Elisa Salerno era ben cosciente infatti che, in un tempo in cui il mondo del lavoro era in grande fermento per la collisione tra industrializzazione e giustizia sociale, il socialismo nascente riusciva a intercettare e a farsi carico delle tragedie e delle aspirazioni dei lavoratori e delle lavoratrici, mentre nella Chiesa cattolica le aperture di alcuni in questo senso erano viste con irritazione e sanzionate con durezza. Già allora, Salerno chiedeva “uguale mercede per uguale lavoro”: aveva capito l’ingiustizia e la pericolosità sociale del gap salariale, cosa di cui oggi ormai parlano tutti, economisti, politici, sindacalisti e perfino Papa Francesco. Aveva capito, soprattutto, che due erano le tappe fondamentali della strada per l’emancipazione delle donne, l’istruzione e il lavoro. Ma era troppo presto.
Era troppo presto anche per cogliere il combinato disposto tra l’antifemminismo e una visione geopolitica dominata dalla guerra. Ha provato a scriverlo a Pio XII nel 1941, quando tutto il mondo era in guerra, con il coraggio visionario di cogliere il cuore del problema. Da lui, come dagli altri Pontefici a cui si era rivolta, non ha ricevuto risposta e solo ora, che la guerra ha preso il nome di pandemia, emerge con forza la consapevolezza dello stretto legame tra barbarie bellica e emarginazione femminile. Salerno scriveva che la guerra non avrebbe più funestato la terra grazie all’«azione morale, intellettuale e cristiana della donna» che va elevata «sicché occupi il suo posto di responsabilità, in tutte le funzioni domestiche e sociali, politiche e diplomatiche, cittadine e nazionali, internazionali e estere». Deve far riflettere le donne di oggi, costrette a invocare le quote rosa o a vedere riconosciute le competenze delle donne solo per decreto, la sua richiesta di non considerare le donne «come semplici comparse, eleggendo una donna qua, una là, ma in numero adeguato, e con poteri, da pesare, validamente, sulle decisioni, sulle leggi che governano i popoli».
«Presa dalla smania di fare la teologhessa»
Purtroppo, però, Elisa Salerno è nata troppo presto anche perché ha vissuto nella lugubre stagione del Modernismo e della resistenza da parte della pubblica opinione cattolica, ma soprattutto delle gerarchie, rispetto a qualsiasi spinta di riforma della Chiesa. Oggi forse, alla luce di tante polemiche che accompagnano l’attuale stagione ecclesiale, possiamo capire meglio quanto sia difficile chiedere alla Chiesa di aprirsi alle urgenze di un rinnovamento. Per non confondere la tradizione con lo status quo bisogna essere disposti a credere che la verità piena non sta alle nostre spalle, ma ci sta davanti, e solo il coraggio di lasciarsi guidare dallo Spirito nelle pieghe della storia è la garanzia di star andando verso la verità piena.
Elisa Salerno ha capito che una delle pieghe della storia in cui era necessario addentrarsi era la millenaria ingiustizia perpetrata nei confronti delle donne, e che doveva farlo da credente, perché «tutti i pregiudizi […] sparsi nel mondo contro la donna sono sostanzialmente […] affermati nei libri degli uomini della Chiesa». La storia le ha dato ragione, ma la Chiesa ancora no. Perché?
I motivi di questa resistenza sono certamente molti. Uno, però, mi sembra degno di attenzione. Salerno ha preteso di andare alla radice del problema della millenaria discriminazione femminile e per questo ha studiato a fondo i testi sacri, la filosofia scolastica e la dottrina cattolica. Teologa ante litteram, ha voluto prendere la parola con cognizione di causa. Non ha avuto paura di contrapporsi a uomini di Chiesa considerati inattaccabili, come Monsignor Martini, la cui traduzione della Bibbia divenuta canonica era palese dimostrazione di antifemminismo, o come il suo vescovo, i cui catechismi, secondo lei, falsavano la sacra Scrittura. Elisa Salerno conduce un’operazione vibrante, dettata certamente dalla sua vis polemica, ma anche da uno studio accurato della Scrittura e da una altrettanto robusta consapevolezza ecclesiale in un tempo in cui per i cattolici l’esilio della Bibbia era diventato sempre più profondo e doloroso.
È stata avversata e derisa, ritenuta una «povera testolina, presa dalla smania di fare la teologhessa […]». Soprattutto, però, è incorsa nella censura ecclesiastica e le veniva negata la comunione. Una ferita dolorosa, ma non per questo ha mai rinnegato le sue convinzioni. Forse, si può capire perché le femministe credenti sperano che la nostalgia per “le sante donne di una volta” porti finalmente a riconoscere la loro forza profetica e il loro coraggio innovatore. Ma anche loro, forse, sono nate troppo presto.di Marinella PerroniBiblista, Pontificio Ateneo S. Anselmo
Un libro
Anna Maria Zanetti, Elisa Salerno, Femminista e cattolica , in Ead. e Luccia Danesin, Indomite. Giornaliste, scrittrici, teologhe, patriote nel Veneto dal Seicento al Novecento, Marsilio, Venezia 2012, 95-107.